Laura Fabbiani e la sua passione per l’arte

da Apr 12, 2022Storie

Laura Fabbiani ha 38 anni, è nata e vive nel bel mezzo della pianura Padana ed è l’unica della famiglia con una sordità profonda bilaterale. Ha una laurea in biotecnologie mediche e medicina molecolare ma lavora come CRM (Customer Relationship Manager) in un’azienda di certificazioni e controlli di qualità, e come dice lei “è evidente che la linearità sia un mio pregio”. Ama tutto ciò che è arte (è Presidente e performer dell’associazione e compagnia teatrale Laboratorio Silenzio, un “contenitore di progetti artistici inclusivi”) o comunque tutto ciò che è in grado di regalarle delle emozioni, non importa sotto quale forma; ama lo sport (ha militato anche nella Nazionale Italiana Volley Femminile Sorde) e adora viaggiare perché la fa sentire cittadina del mondo.

Quando si sono accorti della tua sordità? 

Sono nata sorda profonda bilaterale. La diagnosi arrivò attorno ai 9 mesi di età, che nei primi anni ‘80 era già un buon traguardo perché ai tempi non si faceva lo screening neonatale. Se ne accorse la mia famiglia, in particolare perché quando c’erano dei rumori forti e improvvisi si preoccupavano che io mi svegliassi e invece dormivo ancora profondamente (uno dei lati positivi della sordità…). Quindi cominciarono ad avere dei sospetti ma allo stesso tempo erano straniti perché spesso vocalizzavo, come se stessi piangendo, ma senza piangere. Lo trovarono insolito e curioso, come se stessi cercando di sentire la mia voce. Un’altra cosa che notarono è che quando mi prendevano in braccio spostavo la testa, come se volessi vedere le persone in viso… la conferma della sordità arrivò e indossai subito le mie PA (protesi acustiche), ai tempi sembravano auricolari di un walkman, dato che dovevo indossare una scatolina al collo (il processore delle PA).

Quali rimedi e percorsi riabilitativo-educativi hanno scelto i tuoi genitori per te? Tornando indietro, pensi che abbiano fatto la scelta giusta o la cambieresti?

Quando i miei genitori scoprirono la mia sordità i medici prospettarono loro due strade: imparare la LIS (Lingua dei Segni italiana) oppure usare le PA (protesi acustiche) e fare tanta ma tanta logopedia. Ai tempi il bilinguismo evidentemente non era ancora contemplato, e la mia famiglia scelse la seconda strada perché loro per primi non conoscevano la LIS e non avrebbero avuto modo di comunicare con me. Ho cominciato subito un percorso logopedico fino ai miei 14 anni, con una logopedista che ricordo ancora con tanto affetto. Gli esercizi di logopedia continuavano anche a casa, anche in forma di gioco, con la mia famiglia. Una volta terminato il percorso logopedico, attorno ai 14 anni la mia logopedista mi chiese se fossi interessata ad imparare la LIS. Ai tempi risposi di no perché non conoscevo altre persone sorde e volevo concentrarmi più sul liceo che avrei frequentato. Penso che la mia famiglia ai tempi avesse fatto la scelta giusta; per il tipo di vita che vivevo allora, non avrei avuto comunque modo di esercitare la LIS. Col senno di poi avrei inserito la LIS anche a scuola, per me ma soprattutto per i miei coetanei, come forma di sensibilizzazione sulla sordità.

La sordità ha influito nella tua infanzia e nei tuoi studi?

Decisamente ha influito, in negativo, sul mio percorso scolastico. Stavo sempre in prima fila ma ovviamente era sempre complicato per me prendere gli appunti (mentre scrivevo, non riuscivo a vedere le labbra dei professori) e diciamo che non mi sentivo a mio agio nel domandare gli appunti ai miei compagni, perché mi sembrava di chiedere una sorta di elemosina non voluta. Alcuni professori (pochi) erano comprensivi, mentre altri purtroppo non si sforzavano nemmeno di capire le mie difficoltà. Purtroppo, c’è chi aveva interpretato la mia richiesta di appunti ai miei compagni come pigrizia e svogliatezza nello studio. Non ho bei ricordi dell’epoca scolastica. Avevo insegnanti di sostegno per poche ore alla settimana, e questi insegnanti non erano persone formate su come gestire la persona sorda; diciamo che ero io che spiegavo a loro di che cosa avevo bisogno (nel mio caso, solo prendere appunti per me). Facevo quindi molto affidamento alla sensibilità delle persone che incontravo, e quindi ogni giorno era un rebus.

All’università decisi di puntare solo su di me rinunciando a chiedere appunti ai miei compagni di corso, ma andando a cercare sul web tutte le informazioni di cui avevo bisogno. Ci misi quindi quasi il doppio del tempo rispetto agli altri ma sono stata contenta così, finalmente potevo dire di avercela fatta da sola.

Per quanto riguarda la mia infanzia/adolescenza, lo sport mi ha aiutato molto ad uscire dal guscio e a sentirmi alla pari con gli altri. Avevo pochi amici ma tutti buoni, e la maggior parte di essi sono ancora miei amici ora. Diciamo che tutto sommato per fortuna ho un carattere abbastanza coriaceo; quindi, questi ostacoli mi hanno fatto capire che cosa volessi davvero e cosa no, e ogni traguardo che raggiungevo era piuttosto sudato, e quindi maggiormente apprezzato. La mia vita oggi è decisamente molto più serena, anche grazie agli strumenti tecnologici attuali, e all’aumento generico della sensibilizzazione delle persone sulla tematica della sordità ma soprattutto sull’inclusione in genere. Crescendo è cambiato anche il mio atteggiamento verso le persone, ora sono molto più sicura di me stessa e delle mie potenzialità. Sicuramente c’è ancora molta strada da fare ma credo che piano piano le cose stiano cambiando.

C’è stato un momento di rifiuto o di scoperta della tua identità sorda?

Un momento di rifiuto vero e proprio no, ma sicuramente ci sono stati tanti momenti di sconforto perché mi sentivo poco ascoltata, ma non ho mai attribuito le colpe tutte alla mia sordità, quanto piuttosto ad una mancata volontà di ascolto da parte di alcune persone vicino a me. Tuttavia, quando entrai nella Nazionale Italiana di Pallavolo Sorde, e quindi conobbi finalmente le prime persone sorde, mi sentii un po’ a casa, in mezzo a persone che vivevano problematiche molto simili alle mie. Mi sono sentita meno sola e quindi alleggerita. Nello stesso periodo, di conseguenza, mi avvicinai alla LIS. Finalmente mi sentivo considerata come Laura, come me stessa, e non tanto come Laura, la ragazza sorda.

Cos’ha significato per te l’IC (impianto cocleare)?

Attorno ai miei 30 anni di età ho sentito un progressivo calo del mio udito, già non proprio eccellente. La mia particolarità è che, nonostante la sordità, ho sempre amato la musica, seppur a modo mio. Ma quando mi sono resa conto che piano piano iniziavo a sentire sempre meno e male la mia musica preferita, spesso chiedevo alle persone di ripetere perché non capivo, e arrivavo a fine giornata con dei tremendi mal di testa e con tanta stanchezza. Feci un esame audiometrico e il mio tracciato, già molto negativo ma comunque stabile nel tempo, era peggiorato; era un normale calo fisiologico ma nel mio caso si rifletteva in un grosso problema nel discriminazione delle parole e dei suoni.

Ho quindi preso in considerazione l’idea di fare IC, che mi avevano già proposto qualche anno prima ma che io avevo rifiutato perché tutto sommato avevo raggiunto un mio equilibrio. Dato che l’equilibrio si era rotto, sono tornata a prendere in considerazione l’IC. A 33 anni feci l’intervento di IC al mio orecchio destro, presso l’Ospedale di Varese, grazie alla Dott.ssa Eliana Cristofari e al suo team. L’intervento fu preceduto da un anno circa di preparazione sia tecnica che psicologica, preparazione fondamentale per la corretta riuscita dell’intervento, dato che avrebbe cambiato per sempre il mio modo di sentire. Sono molto felice della scelta che ho fatto e sono stata fortunata perché non sempre l’IC è fattibile su una persona sorda dalla nascita, dovendo essere presi in considerazione tanti diversi fattori. Dopo i primi difficili mesi, ma per cui ero preparata, ora non posso più farne a meno dell’IC. Ho ripreso in mano la mia vita, scoprendo ancora adesso dei suoni nuovi, e parallelamente è aumentata la sicurezza in me stessa… poi è arrivata la pandemia con le sue mascherine, ma questa è un’altra storia. Indubbiamente senza IC mi sarei sentita decisamente peggio.

Il teatro è una delle tue grandi passioni, com’è nata e come la coltivi?

Il teatro e la recitazione, mi hanno sempre affascinata, ma era un argomento che avevo lasciato sempre nel cassetto perché credevo fosse off-limits per me, a prescindere. Inoltre, ero sempre concentrata su altre cose come lo studio e lo sport. Quando appesi le mie scarpe da pallavolo al chiodo stavo cercando ancora una mia strada, un qualcosa per rimpiazzare la pallavolo che tanto aveva riempito le mie settimane. Per caso su Facebook trovai un annuncio da parte di Serena Crocco, attrice e performer che cercava persone sorde e udenti per un laboratorio teatrale sperimentale a Monza. Non era richiesta nessuna preparazione specifica in ambito teatrale, e quindi mi sono buttata. Mi sono da subito confrontata quindi con persone sia sorde, anche straniere, che udenti. Persone che usavano vie di comunicazione completamente diverse tra di loro; le persone sorde erano sia oraliste che segnanti, senza contare i sordi stranieri che utilizzavano le lingue dei segni dei loro Paesi di origine. Tutto ciò non è stata una barriera anzi uno stimolo a trovare un linguaggio comune.

Da allora questo laboratorio sperimentale ne ha fatta tanta di strada, uscendo dagli spazi chiusi e spostandosi verso gli spazi aperti, sia naturali che urbani, ed è diventata ufficialmente un’Associazione a Promozione Sociale, nel Novembre 2020, chiamata Laboratorio Silenzio. Con mio grande piacere e sorpresa ne sono stata eletta presidentessa.

L’obiettivo attuale dell’Associazione è quello di essere fondamentalmente un contenitore di progetti artistici inclusivi come laboratori e performance nel paesaggio con particolare interesse verso l’arte relazionale, la comunicazione non verbale, il silenzio, il corpo, il gesto e tutte le loro possibili contaminazioni con gli spazi urbani e naturali. Nel tempo abbiamo sviluppato una serie di collaborazioni, in primis con l’architetto paesaggista Elisabetta Bianchessi e il suo T12-Lab, che ci hanno portato a sviluppare performance in giro per l’Italia arrivando pure alla Biennale di Architettura di Venezia lo scorso anno. Il punto di forza di Laboratorio Silenzio è, secondo me, il fatto che utilizza un linguaggio pressoché universale, linguaggio completamente accessibile a tutti, senza barriere. Laboratorio Silenzio inoltre è un contenitore in cui tutti possono farne parte, con le loro professionalità, idee, progetti, creatività. Lo trovo un bellissimo luogo di scambio. Laboratorio Silenzio riassume in poche parole l’idea che ho della vita che vorrei, una vita senza barriere, una vita in cui predomina l’ascolto verso gli altri, verso sé stessi, con il rispetto di tutto ciò che ci circonda.

Poco prima della pandemia ho avuto anche il piacere di partecipare ad un progetto teatrale diretto da Carlo Maria Vella, “Nel segno del Minotauro”, con cui abbiamo partecipato al Festival del Silenzio e allo spettacolo dei 40 anni di nascita della compagnia teatrale “Senza Parole”, entrambi a Milano. Il progetto coinvolgeva un gruppo di performer, sia sordi che udenti, ed era un progetto molto interessante e in continuo divenire. “Nel segno del Minotauro” è un adattamento dell’opera “Minotauros. Eine ballade di Friedrich Dürrenmatt”; in poche parole la figura del Minotauro rappresenta la solitudine dovuta all’incapacità del Minotauro di comunicare con i personaggi vicino a lui. Ma allo stesso tempo il Minotauro non si arrende a questa inerzia, anzi, cerca di combatterla, per sentire finalmente un po’ di affetto e amore, perché alla fine il Minotauro non è una figura cattiva, come tutti la percepivano, ma semplicemente è un personaggio incapace di trasmettere le sue emozioni, poiché nessuno gli aveva mai insegnato come comunicare; che la comunicazione, i dialoghi, siano in forma di gesti o di parole, poco conta. Almeno questa è la mia personale interpretazione.

Purtroppo, la pandemia ha rallentato tutte le attività, ma speriamo di ritornare presto in carreggiata perché abbiamo ancora tante idee che bollono in pentola.

La sordità cosa ti ha dato e cosa invece ti ha tolto?

La sordità mi ha tolto un po’ di serenità e di tranquillità soprattutto durante l’infanzia e l’adolescenza, ma allo stesso tempo penso che la sordità mi abbia dato una sorta di sensibilità che non avrei mai avuto se fossi stata udente. La sordità mi ha regalato una certa attenzione ai dettagli, anche apparentemente insignificanti, non solo sulle persone ma anche sugli oggetti, una certa connessione con tutto ciò che mi circonda. In tutta sincerità credo che le cose che mi abbia regalato la sordità siano di più di ciò che mi ha tolto. Penso di essere riuscita a trasformare la sordità in un dono, o almeno ci provo.

Qual è il pregiudizio sulla sordità che ti infastidisce di più?

Non amo quando mi dicono “Oh poverina, chissà quanto hai sofferto” quando parlo della mia sordità, oppure quando dicono “ma va là non è vero che sei sorda, visto che parli, ci stai prendendo in giro!”, soprattutto da persone che mi conoscono poco, perché io per prima amo prendermi in giro. In entrambi i casi cerco di non prendermela mai troppo, sono parole dettate da una non conoscenza della sordità.

Allo stesso tempo però mi rendo conto che nelle parole che dico io, magari senza volerlo, potrebbero esserci dei pregiudizi; quindi, cerco sempre di non prendermela e, anzi, cerco di spiegare i motivi per cui non trovo corrette queste affermazioni. Amo invece quando le persone fanno le domande sulla sordità, anche solo per curiosità genuina; solo così si può abbattere le barriere e pensare ad una reale inclusione.

Altresì penso sia fondamentale sottolineare che ci sono diversi tipi di sordità e che quindi le persone sorde non sono uguali tra di loro, così come non lo sono nemmeno tutte le altre persone

A questo proposito, mi piace molto una frase di Marlee Matlin, attrice sorda vincitrice del premio Oscar per “Figli di un Dio Minore”: “The only thing I can’t do is hear” (L’unica cosa che non posso fare è sentire).

Inoltre, non amo molto le “guerre” che accadono tra le persone sorde stesse in cui ogni persona sorda impone all’altra il proprio percorso, il proprio modo di vivere. Ogni persona sorda ha un suo background famigliare e culturale, ed è giusto che trovi da sola la propria strada senza imposizioni. Quello che trovo però fondamentale è che ogni persona sorda abbia diritto all’accessibilità nella modalità che meglio predilige, questo è quello che avviene nel mio mondo ideale. L’accessibilità alle informazioni, alla cultura, è di essenziale importanza per non rimanere indietro e avere la possibilità di esprimere le proprie opinioni con giusta cognizione di causa.

Hai un sogno nel cassetto?

Nel mio piccolo sto già cercando di perseguire i miei sogni. Non ho sogni particolari se non che vorrei tanto viaggiare attorno al mondo, provare tante più esperienze possibili sulla mia pelle e soprattutto lasciarmi emozionare da tutto ciò che la mia vita mi vorrà regalare, con o senza suoni.